martedì 12 aprile 2011

INTERMEZZO. ITALIOTI 2: AIRPORT 2

Sono stato a lungo senza scrivere. Negli Stati Uniti è stato bello ma un po’ impegnativo. Sono volato a Los Angeles passando per Atlanta. Ho tenuto conferenze su Iside al Bowers Museum di Orange County, in una lussuosa casa privata di Los Angeles e all’Università di Berkley. Sono tornato a Los Angeles e ho parlato della Tomba di Harwa all’UCLA. Da lì sono volato a Chicago dove, grazie a un amico, ho trascorso giorni da sogno in una suite dell’Albergo “The Drake”. In questa città sono intervenuto all’incontro annuale dell’ARCE (American Research Center in Egypt) con una conferenza su una stele di Ramesse III a Deir el-Medina. Ho concluso tornando a parlare di Harwa nel teatro dell’Oriental Insitute. Mi sono rigenerato. Sono tornato a credere in me e nelle mie capacità oratorie. Dopo un anno di quasi totale lontananza dal pubblico.

Veduta di Chicago e del Lago Michigan dall'albergo The Drake
In Italia perdo i concorsi, altrove nel mondo raccolgo consensi. Al Bowers c’erano più di trecento persone ad ascoltarmi (gioco facile quando si parla di Iside); all’incontro dell’ARCE, nonostante il mio intervento fosse tra gli ultimi dell’ultima giornata, la sala era talmente colma che la gente era seduta per terra e non si riusciva più a entrare. Va bene. Sono un po’ presuntuoso. Chiedo venia. Ogni tanto però ci vuole. 
Poi ho fatto ritorno. Sono partito dall’O’Hare di Chicago e sono ripassato da Atlanta, ovverosia due tra gli aeroporti più frequentati del mondo (il terzo è Pechino). Sono atterrato a Fiumicino e mi sono trovato nuovamente immerso nella realtà italiana. Perché tutto appare così trasandato già dal primo momento? Guardate che questa impressione non la si ha soltanto venendo dagli Stati Uniti. E’ lo stesso anche se si arriva dall’aeroporto del Cairo. 
L’aereo è arrivato leggermente in ritardo ma, incredibile a dirsi, la mia valigia era già sul nastro (e per giunta proprio su quello che compariva sugli schermi!) quando sono arrivato a recuperarla. Quasi un sogno. 
Me la potevo cavare così bene a Fiumicino? Ma figurarsi… Secondo me quell’aeroporto mi odia. Arrivato alla stazione ferroviaria mi sono trovato davanti a banchine invase da decine e decine di viaggiatori e nessun treno in vista. I cartelloni degli orari sembravano documentare una catastrofe naturale. Primo treno: ritardo di quaranta minuti; secondo treno: ritardo di cinquanta minuti; terzo treno: soppresso; quarto treno: soppresso; quinto treno: ritardo di venti muniti; sesto treno: soppresso. Davanti agli occhi mi sono balenate varie ipotesi di disastro. Le ho però scartate subito. Negli occhi degli altri passeggeri c’era soltanto la solita annoiata espressione di rassegnazione (italiani) e lo sperduto terrore dell’incognito che si stavano apprestando ad affrontare (stranieri). Cosa era successo? Ho chiesto. Ho interpellato qualcuno. Nessuno lo sapeva. 
Mi è presa una vera e propria smania di tornare a casa prima possibile. Mi hanno proposto uno shuttle. Ho accettato e mi sono così ritrovato seduto sul sedile di un minibus compresso tra il vetro e un signore indiano o singalese. Due sardine godono di maggiore spazio vitale in una scatoletta. Ho rimpianto i taxi della Riva ovest di Luxor. Almeno lì si può viaggiare attaccati all’esterno. Non ce l’ho fatta ad arrivare a Termini. Ho chiesto all’autista di scaricarmi, le membra ormai preda di eserciti di formiche, alla fermata Metro di San Paolo. L’indiano o singalese mi ha guardato riconoscente. Un altro signore ha seguito il mio esempio. I vagoni della metropolitana erano ricoperti di così tanta vernice che ho capito dove fossero le porte soltanto quando si sono aperte. Sono riemerso alla fermata Policlinico. Duecento metri da casa. Una folata di vento sollevata da un’autombulanza a sirene spiegate ha creato un mulinello di cartacce. Tra alcuni oleandri facevano capolino alcuni sacchi di immondizia. 
Amara constatazione finale. Per andare all’Oriental Institute di Chicago si passa attraverso le propaggini di un quartiere abitato essenzialmente da afro-americani. Viene considerano un’area altamente degradata. Vi assicuro che l’arredo urbano è in migliore condizioni di quello romano e le strade e marciapiedi sono molto ma molto più puliti. 

Sto procrastinando il proseguimento del mio racconto principale. Un po’ perché ci sono tante cose da raccontare (non lo avrei mai detto), un po’ perché sto per arrivare alla parte più dolorosa. La mia vita stava per subire un durissimo colpo proprio un anno fa. Cosa c’entra con il concorso? Chi avrà la pazienza di seguirmi lo scoprirà presto...

1 commento:

cinzia ha detto...

bentornato americano!
un solo appunto al tuo racconto, non per difendere fiumicino o roma (indifendibili), ma per essere obiettivi su chicago. io in quel quartiere afro-americano che tu citi ho vissuto circa un anno e mezzo venti e passa anni fa (agh...). ho vissuto benissimo, ovviamente, e lo ricordo effettivamente molto pulito. non ricordo più, invece, il numero spropositato di omicidi perpetrati nel raggio di 100 metri da casa mia. comunque una ventina o giù di lì. davanti casa mia per fortuna nulla, solo un furtarello ogni tanto (mai a me, per fortuna). sapevo tutto ciò perché il giornale locale pubblicava una bella mappa aggirnandola di continuo. ecco, la mappa a roma non c'è e non per nostra disorganizzazione, per fortuna...
Cinzia