lunedì 28 febbraio 2011

INTERMEZZO. ITALIOTI 1: AIRPORT

Chi ha i miei anni si ricorderà certamente i film “Airport”. Ce ne furono ben quattro. Il primo era con Burt Lancaster e Dean Martin e risale al 1970. La trama era sempre basata su un aereo in difficoltà che doveva atterrare in condizioni più o meno di fortuna. Il successo della serie fu tale che agli inizi degli anni Ottanta pensarono di farne una parodia: “Airplane” (“L’aereo più pazzo del mondo”). A distanza di quarant’anni quello che raccontavano i film è diventato parzialmente realtà. La serie potrebbe essere oggi proseguita con il quinto episodio dal titolo: “Fiumicino”. 
Scrivo da Vevey (Svizzera romanda) dove oggi inauguro una mostra incentrata sugli oggetti egizi del compianto Giuseppe Sinopoli. Oggi pomeriggio devo prendere un volo Ginevra – Roma e sono assolutamente terrorizzato. Cosa mi aspetta al mio arrivo? Quale oscura minaccia dovrò affrontare al momento dello sbarco? Riuscirò a riabbracciare i miei? 
Baso queste mie affermazioni sui miei due più recenti passaggi a Fiumicino. Mercoledì scorso vi sono tornato da Torino, sabato vi sono partito per Ginevra. 

(Mercoledì) A Caselle, grazie alla frustrazione di una non tanto gentile signorina della Blu-Express sono stato costretto a imbarcare il mio bagaglio a mano che, una volta tolto il computer, superava i cinque chili concessi di be seicento grammi. Potrete ben capire la mia depressione quando ho visto imbarcarsi manager con trolley, computer e ventiquattr’ore. Perché loro sì e io no? Ma tant’è. Volo tranquillo. Arrivo con mezz’ora di ritardo. Il recupero bagagli è al nastro dieci. Apro il mio giallo e mi dispongo ad aspettare. Passa un quarto d’ora: d’accordo. Continuo a leggere. Ne passa un altro: ma insomma! Leggiucchio buttando di continuo l’occhio sullo schermo. Trascorre un terzo quarto d’ora. Non riesco più a leggere. Gli altri passeggeri cominciano a inquietarsi. Disperate e distrutte sono le due signore con figli che, ormai, sono irrefrenabili. Dopo dieci minuti alcuni chiedono spiegazioni all’ufficio informazioni. Gli dicono di pazientare altri dieci minuti. Poi si sente: “Ma quella è la mia valigia!”. Lo dice ad alta voce una signora che si dirige a gran passi verso il nastro nove. In effetti i nostri bagagli sono là, che girano da chissà quanto tempo. Prima di distaccarmi dal nastro dieci, a cui in fondo mi ero un po’ affezionato, do un’occhiata allo schermo. Continua a esserci scritto che le nostre valigie arriveranno al nastro dieci. 
Raggiungo a passo spedito la stazione dei treni. Sono quasi le nove. Naturalmente le biglietterie sono chiuse, naturalmente i distributori automatici non funzionano e, naturalmente, c’è una lunga coda al botteghino che vende i biglietti con sovrapprezzo minimo. Il treno è già in stazione e parte tra due minuti. Mi metto in fila al botteghino e poi ci ripenso. Mi precipito dentro al treno che, naturalmente, parte con quasi dieci minuti di ritardo. Avrei potuto fare il biglietto. Spero che ci siano altri passeggeri nelle mie stessi condizioni e confido nella comprensione del controllore. Siamo ormai a metà percorso quando dal vagone accanto comincia a venire un gran baccano. Una controllora ben piazzata se la sta prendendo con due giovani di evidente origine est-europea. Dice loro che è stufa di vederli sempre viaggiare su questo treno senza biglietto. Gli urla di scendere. Questi replicano canzonatori. Li prende letteralmente per i panni del petto e li sbatte fuori. Quando sopraggiunge un suo collega per darle manforte, tutto è ormai finito e la controllora fa ceno di ripartire. Le porte si richiudono. 
Con me ci sono due altri passeggeri. La controllora si dirige verso di noi. Ci guardiamo l’un l’altro scambiandoci occhiate nel miglior stile “triello di Sergio Leone”. Capisco che anche loro non hanno il biglietto. Leggo un minimo di panico nel signore più distante da me e più vicino alla controllora che intanto è sopraggiunta. “Non ho il biglietto” dice lui quasi con un fil di voce. La controllora lo guarda furente. “Neanch’io” dice il secondo passeggero con voce tremula. “Le macchinette erano rotte” aggiungo sommessamente. Momento di altissima tensione poi lo sguardo della controllora si scioglie e passa dal furore a una profonda stanchezza mista a rassegnazione. Ci fa i biglietti senza neanche farci pagare il sovrapprezzo che ci avrebbe richiesto il botteghino. 

(Sabato). Bella giornata. Il volo per Ginevra è al Terminal 1, il più lontano. Un tapis-roulant è completamente divelto perché in riparazione, il secondo è fermo, il terzo funziona, il quarto non c’è più da un po’ di anni. Scendo le scale mobili e la porta a vetri è chiusa. Risalgo le scale mobili e mi trovo davanti a un enorme cartello, intorno al quale c’è un mucchio di cartacce, che dice che gli ascensori non funzionano perché li stanno rinnovando. Deve essere così da un po’ di tempo, visto che un senzatetto ha deciso di trasformare il pianerottolo in sua dimora. E ora? Non ci sono altre vie di accesso al Terminal 1 a meno di non fare un lungo giro. Guardo nella tromba dell’ascensore e vedo che un ascensore, nonostante il cartello, si muove. Un signore che entra insieme a me dice: “Bel biglietto da visita per l’Italia” concretizzando i miei pensieri. Mi dirigo al check-in: una coda interminabile. Provo con le macchinette per il check-in automatico. Il primo tentativo non ha successo. Con la carta Ulisse Alitalia sì. Meno male. Ora ho il problema della valigia da spedire. Non pare che ci siano postazioni dedicate. Ovverosia, ci sono, ma sono state trasformate in banchi di check-in normali e anche qui le code sono interminabili. Mi avvicino al banco per Ulisse e Freccia Alata e chiedo alla signorina se mi può imbarcare la valigia. Le domando perché c’è tutta questa confusione. Mi risponde laconica: “E’ sabato.”. Come sarebbe a dire? Tutti i sabati è così e nessuno ha pensato a una soluzione? Ma non è finita. Soltanto due varchi per i controlli sono aperti. Qui la confusione è totale. Mi ci vorrà un buon quarto d’ora, ma con la carta d’imbarco in mano e il bagaglio spedito non temo che mi lascino a terra. Un gruppo di persone, evidentemente nord-europee, fendono la folla spintonando tutti e ricevendo in cambio appellativi che meglio che non capiscono. Proprio in quel momento un’addetta Alitalia apre il nastro della fila accanto a me e ci invita a passare per il varco riservato agli equipaggi. L’evidente nord-europeo, qualche persona più avanti, mi guarda con odio. Non lo degno neanche di uno sguardo. Raggiungo l’aereo. L’imbarco è già cominciato. Arrivo a Ginevra e recupero i bagagli in dieci minuti nonostante l’aeroporto sia strapieno. 

Aforisma. Meglio l’aeroporto del Cairo durante una rivoluzione che quello di Fiumicino in tempo di pace. C’è bisogno di aggiungere altro?

domenica 27 febbraio 2011

PREPARARSI A PERDERE UN CONCORSO

Dopo la parentesi amorosa, torniamo a parlare di cose serie. Torniamo a parlare del concorso per un posto di ricercatore in Egittologia e Civiltà Copta (L-OR/2) bandito presso “Sapienza - Università di Roma” al quale ho partecipato e che ho perso.
Di cose da dire ne ho tante. Ho pensato a lungo a come avrei potuto raccontarle. Sono arrivato alla conclusione che la cosa migliore è esporre i fatti così come si sono svolti. Né più né meno.

Sono venuto a sapere dell’esistenza del concorso al ritorno della missione autunnale in Egitto 2009. Ho subito capito che non lo avrei vinto. Nessuno mi aveva infatti detto che sarebbe stato indetto per me. Ho deciso di presentarmi lo stesso. Aggiornare il curriculum, mettere insieme le proprie pubblicazioni, ritrovare gli attestati. Leggere e rileggere il bando di concorso e consultarsi con altri colleghi per non commettere errori. Verificare e rileggere. Controllare e riguardare. Già. Bisogna andarci cauti, perché la prima cosa che fanno per eliminarti è proprio quella di trovare qualche vizio di forma. Tutte queste operazioni prendono ore e ore. Ore atroci. Sì, atroci.
Ho pensato a lungo a quale termine utilizzare per descrivere quello che è costretto a subire chi, come me, si è trovato a partecipare a un concorso con ottime speranze di vincerlo pur sapendolo che sicuramente lo perderà. Non me ne è venuto nessun altro. Tutto ciò èsemplicemente atroce.
A mio avviso, chi decide un concorso a tavolino commette un’atrocità. Sono persone che vanno contro la Costituzione, che commettono un reato. Perché non vengono punite? Non è una truffa fare vincere qualcuno che lo merita meno di un altro? Non è un danno nei confronti dell’università privilegiare qualcuno con meno titoli? Non è un’ingiustizia non dare alcun credito a quello che è stato fatto in anni e anni di lavoro?
Con questo non voglio accusare nessuno in particolare. Tanto meno chi ha deciso il risultato del mio concorso. Non spetta a me giudicare. Altrimenti non avrei presentato ricorso. La legge fornisce degli strumenti per far valere i propri diritti e io ho intenzione di esercitarli. Mi sento danneggiato. Vedremo poi, non so quando, se questa è una semplice impressione dettata da manie di persecuzione o se è più di una sensazione.
Sono però, fino a prova contraria, un libero cittadino e mi sento perciò legittimato a esprimere opinioni su quello che ritengo giusto o sbagliato basando le mie affermazioni su concetti di morale e etica che mi sono stati impartiti o che ho appresso nel corso della mia vita.
Come ben sapevano gli egiziani non esiste però un’unica verità e tantomeno un’unica giustizia. Il defunto veniva giudicato nella Sala della Maaty. La duplice verità, la duplice giustizia. Quello che a me appare ingiusto, può perciò sembrare assolutamente legittimo per altre persone.
Far vincere un concorso a qualcuno perché è il proprio familiare, il proprio allievo, il proprio amante, il proprio correligionario, il proprio concittadino, il proprio compagno di scuola, il proprio schiavo, il proprio maggiordomo, il proprio portaborse, il proprio leccapiedi, il proprio zerbino, il proprio puntaspilli e così via dicendo a me sembra ingiusto. Per altri è perfettamente legittimo. E per voi?
Vi siete mai posti questa domanda? Qui sta tutto il nocciolo della questione. Cosa fareste, se foste commissari a un concorso? Da un lato vi trovate il vostro (familiare, allievo, amante, correligionario, concittadino, compagno di scuola, schiavo, maggiordomo, portaborse, leccapiedi, zerbino, puntaspilli e così via dicendo) che si presenta con l’unico articolo “A proposito di un frammento di un’iscrizione geroglifica dalla mia collezione privata”. Dall’altro lato si presenta l’autore de “La storia ragionata dell’antico Egitto” in otto volumi, tradotta in quindici lingue e osannata dai colleghi. Chi fareste vincere?
In quest’esempio, volutamente assurdo ed esagerato, e nella decisione che ne consegue risiede il bandolo della matassa. In teoria tutti dovrebbero essere d’accordo sul fatto che chi privilegia un conoscente invece di chi ne ha diritto assume un atteggiamento apertamente nepotista. In pratica questo succede molto più spesso di quanto si creda, anzi pare che ormai sia la regola. Se una volta nella vita si decide di compiere tale scelta si ha infatti la tendenza a giustificare chi ne compie una simile e a non dire nulla. Da qui al silenzio il passo è breve. Dal silenzio all’omertà c’è soltanto lo spazio di un sinonimo. Devo continuare?

L’atrocità di un verdetto già deciso ho cominciato a percepirla sempre più forte nella mia casa di Montepulciano. Erano i giorni di fine dicembre 2009. Stavo raccogliendo la documentazione per il concorso e lo facevo febbrilmente. La nascita di mio figlio (avevamo deciso di non sapere il sesso in anticipo) era prevista per il 10 gennaio. Ma poteva anticipare, come infatti è successo.
Il senso di atrocità era anche aggravato dal fatto che dall’estate precedente mi trovavo senza lavoro. Una situazione non facile. Nulla però rispetto a quello che sarebbe diventata la mia vita di lì a pochi mesi. Prima l’enorme gioia, poi la grande angoscia. Ma sto uscendo dal seminato…
Alla fine tutta la documentazione era pronta per essere spedita. Un pacco voluminoso, pesante. All’interno ci sono i miei libri sul Museo Egizio del Cairo e sulla Pittura murale egizia. Quattro chili ognuno. Sono andato alla posta…

(Continua)

E qui mi fermo. Ho voglia di parlare di un po’ di egittologia. Nell’ultima settimana sono riuscito a visitare il Museo Egizio di Torino e a vedere il nuovo allestimento del corredo funerario di Kha e Meryt. Ho fatto una scoperta…

giovedì 24 febbraio 2011

L’AMORE ALL’OMBRA DELLA CIMA 1

Sono di ritorno da un rapido viaggio. L’avventura dietro all’angolo. Ve lo racconterò presto. Vedrete che ne vale la pena. Ecco intanto la prima puntata del tanto promesso romanzo d’amore. Perché lo scrivo? Lo capirete alla fine. Alcuni di voi lo capiranno anche prima. Buona lettura (mi auguro).

Riva ovest di Luxor. Pomeriggio d’inverno di qualche anno fa. Il sole è tiepido e la luce è dolce, carezzevole e sonnolenta. Un uomo (che chiameremo Leonardo) e una donna (che chiameremo Roberta) si inerpicano per le pendici di una collinetta alla base delle propaggini orientali dell’altopiano libico: la Montagna tebana, la Cima. Leonardo precede di qualche passo Roberta che arranca impedita da una lunga gonna. Giunto quasi alla meta Leonardo si volta e guarda la vallata che si stende qualche decina di metri più in basso. Il deserto finisce d’improvviso e dà sfogo a una distesa di campi. Il verde brillante della canna da zucchero è preponderante sul marrone dei terreni ancora umidi appena seminati. L’aria è abbastanza tersa e lo sguardo riesce a superare il Nilo, Luxor e a spingersi fino ai rilievi montuosi del deserto orientale. E’ veramente un pomeriggio che mette voglia di vivere. Anche il fresco dei giorni scorsi sembra avere dato una tregua.
Leonardo guarda Roberta che incespica per l’ennesima volta sull’orlo della gonna e si chiede perché non rinunci a quell’abbigliamento scomodo e un po’ fuori moda. ‘Contenta lei.’ Roberta alza la testa e sorride. ‘Non male.’ pensa Leonardo. Ancora non ha capito bene se Roberta gli piace davvero oppure no. E’ così. Ci sono donne che a volte ti piacciono e a volte no. Ma per questo tipo di ragionamenti c’è tempo. Ora bisogna trovare la tomba che interessa a Roberta. Leonardo glielo ha promesso. Ci dovrebbero essere tracce di un riuso da parte di un eremita copto. Non che a Leonardo gliene freghi qualcosa dei copti. E’ che le giornate dopo lo scavo vanno pure impegnate in qualche modo. Leonardo riprende la salita.

"Il deserto finisce d’improvviso e dà sfogo a una distesa di campi..."
Roberta ha capito che Leonardo la stava valutando. Si è soffermato troppo a lungo sulla gonna lunga aspettando che si alzasse. ‘Eccolo. Si sarà ancora chiesto perché vado in giro così. Che rottura… Ma perché non si fa gli affari suoi? Chissà se ha mai sentito parlare del complesso dei fianchi abbondanti. Io sì. Me lo ritrovo davanti ogni volta che mi sveglio la mattina. E’ quasi una benedizione che in albergo non ci siano altri specchi che quelli sopra le cassettiere. Troppo piccoli per riflettere la figura intera. Ma guarda cosa vado pensando… Speriamo di arrivare presto. Anche queste scarpe non sono adatte per pendici di sabbia e sassi. Avrei forse dovuto portarmene di più comode.’
“Dovrebbe essere questa!” urla Leonardo indicando un buco nel terreno.
“Quella? Ma è soltanto un buco”. Risponde fermandosi Roberta. Guarda Leonardo e trova che non sia poi così male. Il corteggiamento appena accennato che le ha fatto nelle settimane che hanno preceduto la partenza era stato un po’ goffo, ma niente affatto spiacevole. Lusinghiero, anzi. Ora poi, con quella barba di qualche giorno, ha anche acquistato un po’ del fascino del disgraziato ‘… e io adoro i disgraziati. Soprattutto se dirigono una missione di scavo.’
“Beh. Se vieni quassù ti rendi conto che il buco è nel soffitto di una tomba che sembra ancora piena di detriti”.
“Allora non può essere quella. La pubblicazione dice chiaramente che è accessibile, decorata e con graffiti copti sulle pareti”. Roberta raggiunge Leonardo sul bordo del buco che appare proprio essere un buco.
“Va bene. Vado a verificare, anche se a me sembra proprio piena di detriti.”
“Vengo anch’io.”
“Dove credi di andare con quella gonna e quelle scarpe?” la guarda trattenendo a stento una risata.
“Ma è un salto di neanche un metro.” ‘L’ho visto. L’ho visto. Stavolta era chiaro. Mi ha guardato le tette. Me le ha proprio guardate. Soppesate. E qui non ho nulla da temere. Mi sa proprio che gli piaccio.’.
“Aspetta qui. Se è interessante ti chiamo.” E Leonardo salta dentro il buco, si accovaccia e sparisce al di là del bordo. ‘Ma che razza di maschilista. Lui agisce e io aspetto. Sarei potuta entrare anch’io senza problemi. Ma forse lo ha fatto perché non vuole che mi faccia male. Si prende cura di me. Disgraziato d’aspetto, gentiluomo d’animo. Non male.’
“Qui non c’è niente. Anzi, no… ” la voce di Leonardo arriva da un punto indistinto sottoterra.
 “Allora?”
“E’ piena di cocci. Mi sembrano tutti di epoca romana o copta.”
Leonardo si è dimenticato di portare una torcia elettrica. Chiude gli occhi e li riapre per farli abituare alla penombra. Cumuli di cocci ovunque. Si spinge ancora più in fondo, preso da una sempre maggiore curiosità. Avanza a tentoni, facendo bene attenzione a dove mettere i piedi. Non sarebbe né il primo né l’ultimo a cadere in un pozzo e a fratturarsi qualcosa.
“Allora?” ripete Roberta da fuori. La sua voce è sempre più distante.
“Niente. Non c’è niente. Torno subito indietro” risponde Leonardo che intanto compie ancora qualche cauto passo in avanti. E qui è costretto a fermarsi. La debolissima luce che ormai proviene dal buco rischiara un cumulo di cocci che ingombrano tutto lo spazio fino al soffitto. Un rumore di pietrisco smosso alle sue spalle lo blocca proprio quando ha ormai deciso di tornare indietro. Un animale? Si volta verso il buco ormai distante più di una decina di metri.
“Roberta?” nessuna risposta. Il rumore si ripete ancora. Viene da un angolo buio tra Leonardo e il buco. ‘E ora?’.
“Roberta?” nessuna risposta. Nessun rumore. ‘Che le sarà successo?’. Tanto vale riguadagnare l’uscita. ‘E che animale potrà mai essere? Un cane? Una volpe? Hanno più paura loro di noi che noi di loro. Se mi tengo contro la parete opposta dovrei riuscire a uscire senza disturbarlo. Ci mancherebbe proprio di essere azzannato …’
Passo dopo passo, l’orecchio teso, Leonardo cerca di riguadagnare l’uscita. Raggiunge il cumulo di detriti sotto il buco e chiama ancora.
“Roberta?” nessuna risposta. Dietro di lui, il rumore di detriti smossi si ripete. Vicinissimo stavolta. E si ripete ancora. Sempre più vicino. Leonardo stringe un pugno, si volta piano piano e si trova davanti: Roberta! ‘Maledetta!’
“E tu che ci fai quaggiù?” Roberta ride.
“Mi ero stancata di aspettare ed ero curiosa…” Roberta fa un altro passo, incespica e quando rialza la testa il suo viso è molto vicino a quello di Leonardo.
“Visto che non c’è nulla?” dice Leonardo. Subito si ricrede, però. Qualcosa c’è. Glielo dicono gli occhi di Roberta che ora lo guardano fisso da una distanza di poche decine di centimetri.
“Ci sono soltanto …” Leonardo non conclude la frase perché, prima di poterlo qualcosa di imperioso gli scatta dentro. Prende Roberta per le spalle e avvicina il suo viso a quello di lei. Roberta piega le testa leggermente verso destra “No. Non…” ma poi si lascia raggiungere. Le loro labbra si cercano, si trovano e si uniscono.
Roberta e Leonardo si baciano. Nella tomba. Tra i cocci. Avvolti da un leggero odore di ammoniaca.

(Continua)

lunedì 21 febbraio 2011

NON HO L'ETA'

Sanremo si è appena concluso. L’ho visto più a spizzichi che a bocconi. Mi sono andato a cercare Benigni soltanto il giorno dopo su internet. Straordinario. Mi sono commosso quando ha cantato l’Inno di Mameli. Avevo gli occhi lucidi. Leonida con il suo anno un mese e mezzo di vita mi guardava perplesso. Non capiva perché avevo quella strana espressione sul volto. Spero che un giorno certe cose le capisca. Soprattutto queste.

Bene. Il clima sanremese mi ha contagiato. Per il titolo odierno mi sono rifatto al successo che portò la Cinquetti alla vittoria del Festival 1964. Perché? Perché anch’io non ho l’età. La Cinquetti non l’aveva per amare. Io non l’ho (o meglio non l’avrei) per partecipare a un concorso per ricercatore. Ho cinquant’ anni. Un po’ attempato per certe cose, non trovate? Io direi di sì. Un pover’uomo, disoccupato e per giunta padre di famiglia, per sbarcare il lunario, deve però accontentarsi di quello che il mercato offre. Non mi sento peraltro svilito a cercare di diventare ricercatore. Se avessi vinto sarei in buona compagnia. Sono centinaia le persone con questo titolo all’interno dell’università italiana. E molti tra loro sono ormai prossimi alla pensione. A uno viene proprio da chiedersi come mai in tutti questi anni nessuno di loro abbia meritato una seppur piccola promozione. Invece no. Tutti lì a fare i ricercatori da anni. O meglio, a guadagnare come ricercatori da anni. Poi si scopre invece che fanno quanto e più di un professore.
Il pensiero che esistano tanti ricercatori vicini alla pensione non mi rincuora. Mi sento veramente un po’ in là con gli anni. Non ho l’età.
E pensare che sei anni fa la mia candidatura alla direzione del Museo Egizio di Torino è stata rigettata perché ero troppo giovane. Aveva proprio ragione il mio conterraneo: la giovinezza fugge veramente tuttavia. La mia è durata esattamente sei anni. Dai quarantaquattro ai quarantanove. Ieri ero troppo giovane per il Museo di Torino, oggi sono troppo vecchio per il posto di ricercatore. Il fatto che la mia sia cominciata ai quarantasei, con un ritardo di circa trent’anni sul normale, un po’ però mi inquieta. Devo essere finito in una distorsione spazio-temporale. Roba da parlarne di corsa a Roberto Giacobbo. Mi potrebbe dedicare una puntata di Voyager. Magari scopro che questo ritardo è motivato dal fatto che in realtà sono Elvis Presley che pensa di essere morto quando era Paul McCartney e, diventato poi yeti si sarebbe attardato un po’ troppo a fare cerchi nei campi di grano per segnalare ai templari che le piramidi le hanno costruite proprio gli omini verdi di Betelgeuse.
A Giacobbo quel che è di Giacobbo, a me l’ossessione per l’età che ho. Perché sono ossessionato? Perché proprio ieri mi è stata ricordata un’affermazione di Patrizia Piacentini, commissaria al concorso che ho perso. Qualche mese or sono aveva detto: “ A parità di titoli, preferisco che vinca un trentenne”. Sono parole che sottoscrivo pienamente. A parità di titoli anch’io avrei fatto una scelta simile. Il concorso era infatti basato sulla comparazione di titoli e pubblicazioni e, qualora vi fosse stato un ex-equo tra due candidati, era giusto ricorrere ad altri criteri di giudizio. Mi sembra che l’età sia un’ottima discriminante, anche perché la figura del ricercatore dovrebbe proprio essere quella di una persona dinamica e quindi giovane. Nel far vincere chi ha fatto vincere, Patrizia ha però commesso, a mio modesto avviso, due errori. Conoscendo quanto è scrupolosa lo avrà fatto certamente per distrazione, ne sono sicuro, però mi pare che non abbia letto bene i curricula dei candidati. Deve avere saltato qualche pagina del mio e quella con i dati anagrafici degli altri candidati. Altrimenti si sarebbe accorta  che siamo lungi dalla “parità dei titoli” e che la vincitrice non ha più trent’anni (la galanteria mi impone di tacere la sua reale età).

A dopodomani l’incipit della storia d’amore a lungo promessa che ci accompagnerà lungo tutto il racconto di queste mie vicende. A presto.  

sabato 19 febbraio 2011

FALSA?

Mi è stato sollecitato un commento sulla statuetta di Akhenaton offerente (JE 43580) sottratta dal Museo del Cairo il 28 gennaio e ritrovata il 16 febbraio scorso. Sul web è iniziata a serpeggiare la notizia che quella mostrata sul sito di Zahi Hawass sia falsa. Non so come possa essere saltata fuori questa notizia. Forse fa parte di quel piacere per la dietrologia che coltiviamo un po’ tutti in fondo all’animo. Mi dispiace però deludere quanti hanno pensato una cosa simile. Si tratta proprio dell’originale. Trovate una delle fotografie, scattate dal mio amico Ahmed Amin e pubblicate sul sito di Zahi, qui sotto. Guardatela.

Statuetta di Akhenaton offerente (Museo del cairo, JE 43580), fotografia Ahmed Amin

Manca il vassoio con le offerte che era già stato recuperato all’interno del museo. Nessun falsario poteva sapere che si trattava di un pezzo separato. Si vedono anche chiaramente le macchie rossastre della pietra sull’inguine e al di sotto del ginocchio sinistro. La Corona azzurra ha pressoché le stesse lacune che risultano in fotografie precedentemente pubblicate. Lo stucco che è servito per riempire il foro rettangolare della base (in alabastro) nel quale è stata inserita la statuetta è infine ben visibile. No. Quella recuperata è proprio la statuetta l’originale. Siatene sicuri e gioitene.

Sto trascorrendo il fine settimana a Montepulciano, la mia amata residenza che sono riuscito a riguadagnare dopo mesi di assenza. Qui ho potuto consultare il mio Tesori egizi. A pp. 208-209 compaiono affiancate la statuetta di Tutankhamon sulla pantera (JE 60714) e quella sull’imbarcazione di papiri (JE 60709), le due preziose sculture che hanno subito danni (la seconda è ancora mancante) nei giorni della protesta di Midan el-Tahrir. In museo si trovavano in due vetrine diverse. Nel mio libro le avevo accomunate a causa della loro similitudine tipologica. Quell’accostamento mi appare oggi come una triste premonizione.

I fatti cairoti mi hanno distratto e mi sono lasciato trasportare lontano dall’argomento che mi interessa trattare in questo blog. Tornerò sicuramente a parlare di cose egittologiche, ma da lunedì inizio davvero a raccontare del mio concorso. 

mercoledì 16 febbraio 2011

ANCORA UN AGGIORNAMENTO

Secondo Nora Shalaby, una blogger cairota, la protesta degli archeologi precari contro Zahi è partita alle 14 (13 italiane) da davanti il Consiglio dei ministri come era già stato annunciato ieri. Sul blog di Nora c'è anche una fotografia dei dimostranti. Si dirigerà verso il  neo-costituito Ministero delle Antichità. Riuscirà Zahi a venire a capo della protesta? Non lo so. So solo che ci sta provando. Ieri è stata aperta una pagina Facebook dedicata proprio al Ministero dove si promette l'assorbimento progressivo di molti giovani. Mossa molo astuta... La pagina ha oltre 500 contatti.
Proprio mentre sto scrivendo è cominciata a serpeggiare nel web la notizia che sarebbe stata ritrovata la statua di Akhenaton. Lo afferma Jane Askar sul suo blog da Luxor. Se risultasse confermata, farebbe tirare a tutti un bel respiro di sollievo e darebbe un'ulteriore speranza nel recupero anche delle altre opere.

Mammia mia! Non mancano davvero i colpi di scena in questi giorni... Cercherò di tenervi informati quanto più possibile.

martedì 15 febbraio 2011

AGGIORNAMENTO SUI FURTI

Mi sembra giusto rendere pubblica questa informazione appena ricevuta da Kiya:

"In merito al ritrovamento di alcuni dei reperti sottratti al Museo, il sito Ahramonline riferisce che tre di essi sono stati ritrovati sul lato orientale del Museo, accanto al negozio di souvenir. Oltre allo scarabeo del cuore di Tuya e a uno degli ushabti di Yuya, si fa riferimento a frammento del sarcofago antropoide ligneo, in mostra nella sala del Nuovo Regno, di cui nessuno ha mai fatto parola prima di adesso.... Mi chiedo quanto ancora non è stato reso noto e quanto, probabilmente, non lo sarà mai. Insomma.... Quanto è lunga la lista degli oggetti rubati, se esiste una lista? Non dovrebbe esserne obbligatoria la pubblicazione ufficiale, per poter informare e allertare chi ha l'obbligo di controlli, ad esempio negli aeroporti?"

Mi sembrano domande più che legittime. Sono momenti di estrema confusione. Credo che la lista sarà ufficializzata non appena possibile.  Per il momento tutto quello che abbiamo è uno scarno elenco sul sito di Zahi. Vediamo cosa viene fuori nei prossimi giorni. Grazie, Kiya ...

FURTI E PROTESTE

Mi trovo ancora una volta a rimandare l’inizio del mio racconto. E’ a causa dell’annuncio diramato nei giorni scorsi relativo al furto di preziosissimi oggetti dal Museo Egizio del Cairo. Durante l’assalto avvenuto alla fine del gennaio scorso sono state trafugate due sculture in legno dorato di Tutankhamon, la statua di Akhenaton con un vassoio ricolmo di offerte, un’effigie della sua sposa Nefertiti e la testa di una principessa amarniana. Sono anche spariti undici ushabty e uno scarabeo del cuore che facevano parte del corredo funerario di Yuya e Tuya.

Una delle due statue di Tutankhamon trafugate dal Museo del Cairo (Fotografia: F. Tiradritti)

Queste prime notizie mi avevano abbastanza sconfortato. Sono opere uniche, capolavori di valore inestimabile, ma soprattutto sono reperti che conosco benissimo. Alcuni di questi li ho inclusi nel mio libro sul Museo del Cairo. La statuetta di Akhenaton l’ho tenuta tra le mie mani durante le riprese fotografiche effettuate con Araldo De Luca. Una replica della stessa mi era stata offerta da Abd el-Khalim Nur ed-Din, allora direttore generale del Consiglio Superiore delle Antichità (SCA) per la mia partecipazione alla preparazione del piano di fattibilità per la costruzione del Grand Egyptian Museum a Giza.
Mentre stavo scrivendo queste righe, ieri pomeriggio, è giunta una buona notizia. Sembrerebbe che due ushabty (o uno soltanto?) e lo scarabeo del cuore siano stati recuperati. Questo lascia bene sperare anche per il resto della preziosissima refurtiva.
Stamattina, altro colpo di scena. Proprio ieri, davanti alla sede dello SCA si sono riuniti circa centocinquanta giovani ispettori che chiedevano a gran voce le dimissioni di Zahi Hawass. Gli rimproverano di avere assunto posizioni pro-Mubarak nei giorni della protesta (vedere il suo comunicato del 6 febbraio scorso) e aggiungono anche che sono mal pagati e senza lavoro. Si chiedono soprattutto dove vadano a finire tutti i milioni di dollari che arrivano con il turismo e vengono utilizzati soltanto in minima parte per la salvaguardia dei monumenti egiziani. Un’altra giornata di protesta è prevista per domani 16 febbraio sempre davanti alla sede dello SCA. Cosa accadrà?

venerdì 11 febbraio 2011

ODIO I BLOG

Prima di iniziare devo confessare una cosa: odio i blog.
Talvolta ci capito per caso e mi metto a leggerne un pezzo. Se va tutto bene ci trovo qualche scempiata. Se va male, leggo cose talmente assurde che mi chiedo se ci fosse stato veramente bisogno di scriverle, certe cose.
Oggi mi trovo anch’io ad aprire un blog. Posso soltanto augurarmi di non scriverci qualcosa che a me sembra geniale, o comunque degna di essere scritta e letta, e invece appaia ai più un’emerita scempiata.
Perché apro un blog? Perché ho una missione. Devo raccontare a tutti quello che tutti sanno. E allora perché lo racconto? Perché anche se tutti lo sanno, si comportano come se non lo sapessero. Non è una missione questa?
E poi non potevo certo continuare a utilizzare il sito di Harwa per cose che non riguardano gli scavi se non in modo marginale. Anche se, tutto sommato, quello che c’è dietro al concorso che ho perso, ha molto a che fare con il progetto di scavo che porto avanti ormai da quindici anni. Mi sembrava però di sporcare il sito di Harwa continuando a parlare proprio lì di concorsi decisi a tavolino, di mafia universitaria e della triste situazione in cui versa oggi l’egittologia (normalmente la scrivo con la maiuscola, qui non è il caso) italiana.
Che schifo! Quante volte me lo sono detto e ripetuto. Ora lo voglio dire a tutti. Ho taciuto per anni aspettando proprio questo momento. Ho aspettato che il torto che ho subito fosse oggettivamente manifesto. Se non avessi aspettato fino a oggi mi avrebbero sempre potuto dire che scrivevo e denunciavo soltanto per rancore. E’ vero, talvolta sono rancoroso. Ma non è qui il caso.
Ho intenzione di raccontare la mia esperienza personale per farne un caso. Si tratta di qualcosa si assolutamente normale, né più né meno simile a quella di altre decine di persone. Quanti hanno perso un concorso che, secondo le leggi italiane, avrebbero dovuto vincere? E’ proprio per questo che mi sento in dovere di raccontare. Per tentare almeno di cambiare le cose.
Alcuni di quelli che mi hanno seguito sul sito di Harwa, mi hanno chiesto perché ho deciso di intitolare il mio racconto “Sodoma. Cronaca di un concorso annunciato”. Si tratta di due diverse citazioni. La prima rimanda a Saviano e al suo “Gomorra”. Saviano riprende il titolo dagli scritti di denuncia di Don Giuseppe Diana e parla di camorra. Io parlo di mafia universitaria. La prima miete vittime tra i cittadini, la seconda uccide il paese. Non ditemi che non vi siete accorti che l’Italia è un paese in agonia. La seconda parte del titolo è un omaggio a uno dei miei autori preferiti: Gabriel García Márquez. Il mio racconto potrebbe benissimo cominciare parafrasando l’incipit di Cronaca di una morte annunciata: “Il giorno in cui avrebbe perso il concorso, Francesco Tiradritti, si alzò alle 6.30…” (quel giorno sono stato leggermente meno mattiniero di Santiago Nasar) e andando avanti a parafrasare… “Tutti sapevano quali erano le intenzioni dei commissari del concorso, ma nessuno cercò di fermarli. Forse perché non credevano che sarebbero andati fino in fondo … o forse più semplicemente per menefreghismo e omertà.”

A quanti mi hanno seguito sul sito di Harwa avevo promesso di cominciare con una scena d’amore. Oggi mi sono dilungato un po’ e non ho tempo. Non ho però intenzione di non mantenere una promessa fatta. Tra poco è San Valentino. E’ un bel giorno per parlare d’amore. Rimando per l’ultima volta l’inizio di questo racconto a lunedì prossimo, festa degli innamorati.