venerdì 29 aprile 2011

UNA LETTERA ANONIMA FIRMATA 1: L’IICE

Oggi comincio a raccontare un recente episodio che, pur non avendo nulla a che vedere con il concorso che ho perso, è sintomatico della situazione in cui si trova a versare l’egittologia (e l’accademia più in generale) italiana. 
Per farlo devo però prima parlare di un’istituzione che quest’anno festeggia i suoi venticinque anni di attività: l’’Istituto Italiano per la Civiltà Egizia (IICE) che è stato fondato nel 1986. Ero presente alle prime riunioni e aderii con entusiasmo a questa iniziativa. Sono sempre stato favorevole all’associazionismo e mi piaceva l’idea di un’organizzazione che riunisse tutti gli egittologi italiani come già accadeva da tempo in altre nazioni del mondo. 
La creazione dell’IICE fu fortemente voluta anche da Bruno Alberton, funzionario di un istituto o di una fondazione bancaria torinese (Scusate la mia incertezza, ma scrivo basandomi sui ricordi e, sinceramente, non ho più precisa memoria di alcuni particolari di tutta la vicenda). Non essendo Alberton un vero appassionato di egittologia mi è sempre sfuggito il perché abbia deciso di lanciarsi in questa impresa. Qualche anno più tardi mi fu detto che lo avrebbe fatto per cercare di intraprendere una carriera politica. Non so se sia vero o no. Fatto sta che la creazione dell’IICE non gli deve essere giovata a molto visto che non mi sembra sia mai riuscito a ottenere una qualche carica. O forse sì? Dovrei chiederglielo, ma non è che importi poi molto ai fini di quello che intendo raccontare. Fatto sta che Alberton è segretario dell’IICE dal momento della sua fondazione. Ha dato le dimissioni irrevocabili nel dicembre scorso, ma continua a essere segretario. La ragione sembrerebbe essere la mancanza di una vera alternativa. Talvolta cercando si trova. 

(a sinistra) Bruno Alberton, segretario dell'IICE nel 2007; (a destra) Bruno Alberton, ancora segretario  dell'IICE nel 2107

Alberton si diede subito da fare per reperire i finanziamenti necessari a far funzionare l’IICE. Riuscì a ottenere una sorta di sponsorizzazione della Best Tours S.p.A: i membri dell’IICE ottennero camere all’Hotel Marriott del Cairo in occasione del congresso internazionale di egittologia del 1988 a prezzi più che concorrenziali. In cambio alcuni giovani egittologi dovevano accompagnare viaggi a tema che la Best Tours aveva intenzione di organizzare. Ero appena laureato e fui il primo o il secondo a partecipare a questa iniziativa. L’argomento che mi trovai ad affrontare era “il turismo nell’antico Egitto”. Mi ci volle un bel po’ di tempo per prepararmi. Per il lavoro richiesto il compenso era abbastanza risicato. Accettai perché ero convinto che così l’IICE avrebbe ricevuto in cambio un po’ di finanziamenti. Mi consolai con la visita di siti come Assuan e Abu Simbel dove non ero mai stato. Il viaggio si rivelò un’esperienza fantastica. Al di sopra di ogni mia più rosea aspettativa. Nonostante fosse (o forse proprio perché lo era) la classica crociera lungo il Nilo. 
Non so com’è, ma l’accordo con la Best Tours non durò a lungo. 
Nel 1991 l’IICE fu strumentale per l’organizzazione del Congresso Internazionale di Egittologia a Torino. Il merito del successo che ebbe va però al Professor Sergio Donadoni, alla Dottoressa Anna Maria Roveri Donadoni e al Professor Silvio Curto che si occuparono della complessa organizzazione. Fu un congresso strepitoso e, sebbene siano trascorsi vent’anni, molti colleghi lo ricordano ancora con piacere. 
Con queste premesse l’IICE sembrava destinato a un glorioso futuro. Con il tempo si è invece andato spegnendo a poco a poco. La partecipazione corale dei primi anni è venuta sempre più a mancare e l’IICE è stato spesso strumentalizzato. E’ più volte servito, per esempio, nel tracciare una linea di divisione tra “vera” e “falsa” egittologia. Non c’è bisogno di dire che i possessori della “verità” erano soltanto alcuni soci dell’IICE. Peccato che, più volte, in seno all’organizzazione siano state accolte persone che di egittologico avevano soltanto il fatto di occuparsi di reperti egiziani o sudanesi. E sul loro modo di accostarsi alle antichità ci sarebbe molto da ridire. 
Negli anni l’IICE ha anche organizzato numerosi convegni nazionali. Alcuni molto validi dal punto di vista scientifico, altri più equiparabili a show televisivi. Mi vengono in mente “La corrida” di Corrado per i debuttanti allo sbaraglio e “Ci vediamo in TV” di Paolo Limiti per l’età dei conferenzieri. 
Al di là di tutto questo, l’IICE rimarrà sempre scolpito nella mia memoria per due memorabili momenti conviviali, la cui organizzazione (quando non pagavamo noi) è sempre stata improntata a regole ispirate alla più schietta parsimoniosa generosità piemontese. Voglio raccontare questi due momenti perché ne vale proprio la pena. Comincerò con una leggendaria cena in un ristorante messicano di Torino. 
Non eravamo in molti e Alberton aveva prenotato una lunga tavola in un angolo del locale. Una volta seduti lo stesso Alberton ci comunicò che, causa ristrettezza di fondi, avremmo dovuto condividere la cena con il nostro vicino. Avete capito bene. Non sto scherzando. Ogni portata doveva bastare per due. Quando chiesi se non avessimo potuto pagarci la cena da soli Alberton mi invitò sbrigativamente a non disturbare. Ero seduto accanto a una papirologa che non avevo mai avuto il piacere di incontrare prima. Facemmo le reciproche presentazioni e mangiammo i cibi messicani che ci venivano portati nello stesso piatto. Per cavalleria lasciavo che lei terminasse la sua metà prima di consumare la mia. Per sollevare ogni legittimo dubbio dirò che ognuno aveva le proprie posate. Tentai di sdrammatizzare una situazione assurdamente paradossale intonando canzoni latino-americane con il gruppo folklorico avvicinatosi al tavolo a un certo punto della cena. Raccolsi la disapprovazione della maggior parte dei commensali. 
Avrei forse dovuto comportarmi come il Professor Sergio Bosticco (maa-kheru) a una riunione dell’IICE a Firenze. In quell’occasione fu deciso che ognuno avrebbe pagato per proprio conto. Quasi tutti si orientarono per tagliata o fiorentina (e cosa sennò?). Quando il cameriere interpellò il mitico Bosticco, restò un po’ interdetto nel sentirsi rispondere “A me porti le ossa dei signori…”. Gli sedevo proprio di fronte e, mentre lo osservavo scarnificare con gusto la montagna di ossa accumulata nel suo piatto, mi domandavo del perché della sua singolare richiesta. Me lo spiegò qualche tempo dopo il Professor Sergio Donadoni, amico di Bosticco da tempi immemorabili e ormai avvezzo a decifrare i suoi modi di fare attraverso i quali comunicava con il mondo esterno. Mi disse che Bosticco lo aveva fatto per dimostrare il suo dissenso nei confronti di quel tipo di riunioni. 

E questo, Signore e Signori, è un momento di vera egittologia italiana. Senza l’IICE e un'egittologia così il  geniale artificio della lettera anonima firmata non avrebbe mai potuto essere. Alla prossima…

lunedì 18 aprile 2011

ZAHI HAWASS: FASHION OR TUTANKHAMON VICTIM?

Mi piacerebbe proseguire con il racconto sul concorso che ho perso, ma c’è sempre qualcosa che mi spinge a rimandare. L’occasione offerta oggi da un articolo di Francesca Caferri su Repubblica (18 aprile 2011, p. 47) è, per esempio, troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. 

Nonostante lo abbia difeso e lo difenda, non sono un vero fan di Zahi Hawass. Malgrado abbia apprezzato molte delle cose che ha fatto per migliorare il Consiglio Superiore delle Antichità egiziano e sia convinto che sia la persona che può riportare un po’ d’ordine nel caos che regna attualmente tra le antichità egizie, non condivido molte sue scelte. Il suo modo di proporre i monumenti della Valle del Nilo e l’egittologia ai media mondiali, per esempio, non mi trova per nulla d’accordo. Certe volte, ma soltanto certe volte, penso che abbia ragione lui. Lui fa i soldi e io no. Poi però mi dico che a me va bene anche così. 
Se però continuano a maltrattare così Zahi mi costringeranno a diventare un suo fan sfegatato e ad aprire un gruppo su Facebook (oltre a quello in cui si chiede di salvarlo da Roberto Giacobbo) per proteggerlo da giornalisti come la Caferri. Di quest’ultima avevo letto anche altri suoi interventi sull’Egitto e il Medio Oriente e non mi era sembrata affatto una sprovveduta. 
Vediamo cosa ha scritto. Con un notevole sforzo di originalità il suo articolo odierno comincia così: “La maledizione di Tutankhamon colpisce ancora …”. E già a questo punto ho pensato seriamente che non valeva la pena di continuare la lettura. Ero però intrigato dalle fotografie e commento dell'articolo.
La Caferri passa poi a raccontare di come Zahi, per promuovere una linea di vestiti che porta il suo nome, realizzata dalla casa di moda americana Art Zulu, avrebbe permesso al fotografo James Weber di compiere nottetempo riprese tra i tesori del giovane sovrano. Peccato  si veda benissimo che l’aitante modello è in posa davanti a vetrine e oggetti esposti in “Tutankhamon and the Golden Age of the Pharaohs”. Quanto la sessione fotografica è stata fatta la mostra itinerante era a New York. Proprio in questi giorni la stanno trasferendo a Melbourne. 

Un capo della linea Zahi Hawass (si noti anche qui l'originalità). Sullo sfondo il sarcofago dorato di Tuya

L’articolo della Caferri continua con altre amenità di vario genere tutte un po’ fazioselle, come per esempio, arrivare a insinuare che l’aitante modello di cui sopra avrebbe avuto il permesso di stare seduto su antichità originali. Non ci vuole una laurea in egittologia per accorgersi che si tratta di copie. 

Il  presunto trono di Tutankhamon. Si noti anche in questo caso lo sforzo creativo dello stilista
Ho letto e riletto l’articolo della Caferri e non sono riuscito a capire davvero dove sia la notizia. E lo scandalo invocato dal titolo (“Mr. Indiana Jones. Lo scandalo travolge il re delle mummie”. La creatività qui tocca i massimi livelli)? Ma dove è? E’ scandaloso che Zahi abbia accettato che una linea di moda porti il suo nome? Non mi pare. Se poi il ricavato, come asseriscono il diretto interessato e la Art Zulu, andasse davvero al 57357 Children’s Cancer Hospital al Cairo (sul sito dell’ospedale di questa donazione non vi è però traccia alcuna) tutta la faccenda avrebbe anche un lato assai meritorio. 
Tra i bacchettoni che purtroppo popolano le nostre discipline il semplice accostamento di Zahi alla moda potrebbe risultare già scandaloso. A loro e ai miei detrattori più gelosi dedico perciò la fotografia sottostante. L’ha scattata Barry Lategan nel 1997 quando ho collaborato a un servizio di Aldo Coppola per Vogue. Alla mia destra Adia Koulibaly e a sinistra Manon von Gerkan. Noi sì che sedevamo su vere antichità! La colonna alle nostre spalle è una di quelle del Tempio di Medinet Habu. 

No, non indosso un capo Zahi Hawass. In Egitto vesto  normalmente così
L’episodio invocato dalla Caferri, tutto sommato, mi sembra però la minore delle preoccupazioni che si trova ad affrontare Zahi in questo periodo. Circola sul web la notizia che sarebbe stato condannato a un anno di carcere duro e a una multa di 500 o 1000 Lire egiziane a causa di un appezzamento di terreno. Dovrebbe anche rispondere di illecito in bando di gara per quello che riguarda l’attribuzione delle licenze per i book-shop nei musei egizi. 
Proprio mentre scrivevo questo paragrafo è comparso un aggiornamento sul sito di Zahi. La corte ha dato il non luogo a procedere per il secondo procedimento e Zahi rimarrà ministro. Non vi è invece notizia per quello che riguarda la faccenda dell’appezzamento di terra. Boh? 

Buone notizie sul fronte del recupero della antichità trafugate dal Museo Egizio del Cairo. Ne sono state ritrovate altre non più di qualche giorno fa. Si tratta delle trombe, del ventaglio e della statua dorata sull’imbarcazione di papiro di Tutanakhamon e di un ushabty di Yuya. Sono state recuperate in una borsa all’interno di una stazione della metro cairota. Il modo di ritrovamento è molto simile a quello delle antichità recuperate in precedenza e appare abbastanza anomalo. Non ci sono però prove che inducano a ritenere che le cose non siano andate così. 

La prossima volta, spero a breve, tornerò a parlarvi di cose di cosa (ops… Volevo scrivere “casa”. Lapsus freudiano) nostra. Sarà una puntata didattica da non perdere: spiegherò come scrivere una lettera anonima firmata. A presto.

martedì 12 aprile 2011

INTERMEZZO. ITALIOTI 2: AIRPORT 2

Sono stato a lungo senza scrivere. Negli Stati Uniti è stato bello ma un po’ impegnativo. Sono volato a Los Angeles passando per Atlanta. Ho tenuto conferenze su Iside al Bowers Museum di Orange County, in una lussuosa casa privata di Los Angeles e all’Università di Berkley. Sono tornato a Los Angeles e ho parlato della Tomba di Harwa all’UCLA. Da lì sono volato a Chicago dove, grazie a un amico, ho trascorso giorni da sogno in una suite dell’Albergo “The Drake”. In questa città sono intervenuto all’incontro annuale dell’ARCE (American Research Center in Egypt) con una conferenza su una stele di Ramesse III a Deir el-Medina. Ho concluso tornando a parlare di Harwa nel teatro dell’Oriental Insitute. Mi sono rigenerato. Sono tornato a credere in me e nelle mie capacità oratorie. Dopo un anno di quasi totale lontananza dal pubblico.

Veduta di Chicago e del Lago Michigan dall'albergo The Drake
In Italia perdo i concorsi, altrove nel mondo raccolgo consensi. Al Bowers c’erano più di trecento persone ad ascoltarmi (gioco facile quando si parla di Iside); all’incontro dell’ARCE, nonostante il mio intervento fosse tra gli ultimi dell’ultima giornata, la sala era talmente colma che la gente era seduta per terra e non si riusciva più a entrare. Va bene. Sono un po’ presuntuoso. Chiedo venia. Ogni tanto però ci vuole. 
Poi ho fatto ritorno. Sono partito dall’O’Hare di Chicago e sono ripassato da Atlanta, ovverosia due tra gli aeroporti più frequentati del mondo (il terzo è Pechino). Sono atterrato a Fiumicino e mi sono trovato nuovamente immerso nella realtà italiana. Perché tutto appare così trasandato già dal primo momento? Guardate che questa impressione non la si ha soltanto venendo dagli Stati Uniti. E’ lo stesso anche se si arriva dall’aeroporto del Cairo. 
L’aereo è arrivato leggermente in ritardo ma, incredibile a dirsi, la mia valigia era già sul nastro (e per giunta proprio su quello che compariva sugli schermi!) quando sono arrivato a recuperarla. Quasi un sogno. 
Me la potevo cavare così bene a Fiumicino? Ma figurarsi… Secondo me quell’aeroporto mi odia. Arrivato alla stazione ferroviaria mi sono trovato davanti a banchine invase da decine e decine di viaggiatori e nessun treno in vista. I cartelloni degli orari sembravano documentare una catastrofe naturale. Primo treno: ritardo di quaranta minuti; secondo treno: ritardo di cinquanta minuti; terzo treno: soppresso; quarto treno: soppresso; quinto treno: ritardo di venti muniti; sesto treno: soppresso. Davanti agli occhi mi sono balenate varie ipotesi di disastro. Le ho però scartate subito. Negli occhi degli altri passeggeri c’era soltanto la solita annoiata espressione di rassegnazione (italiani) e lo sperduto terrore dell’incognito che si stavano apprestando ad affrontare (stranieri). Cosa era successo? Ho chiesto. Ho interpellato qualcuno. Nessuno lo sapeva. 
Mi è presa una vera e propria smania di tornare a casa prima possibile. Mi hanno proposto uno shuttle. Ho accettato e mi sono così ritrovato seduto sul sedile di un minibus compresso tra il vetro e un signore indiano o singalese. Due sardine godono di maggiore spazio vitale in una scatoletta. Ho rimpianto i taxi della Riva ovest di Luxor. Almeno lì si può viaggiare attaccati all’esterno. Non ce l’ho fatta ad arrivare a Termini. Ho chiesto all’autista di scaricarmi, le membra ormai preda di eserciti di formiche, alla fermata Metro di San Paolo. L’indiano o singalese mi ha guardato riconoscente. Un altro signore ha seguito il mio esempio. I vagoni della metropolitana erano ricoperti di così tanta vernice che ho capito dove fossero le porte soltanto quando si sono aperte. Sono riemerso alla fermata Policlinico. Duecento metri da casa. Una folata di vento sollevata da un’autombulanza a sirene spiegate ha creato un mulinello di cartacce. Tra alcuni oleandri facevano capolino alcuni sacchi di immondizia. 
Amara constatazione finale. Per andare all’Oriental Institute di Chicago si passa attraverso le propaggini di un quartiere abitato essenzialmente da afro-americani. Viene considerano un’area altamente degradata. Vi assicuro che l’arredo urbano è in migliore condizioni di quello romano e le strade e marciapiedi sono molto ma molto più puliti. 

Sto procrastinando il proseguimento del mio racconto principale. Un po’ perché ci sono tante cose da raccontare (non lo avrei mai detto), un po’ perché sto per arrivare alla parte più dolorosa. La mia vita stava per subire un durissimo colpo proprio un anno fa. Cosa c’entra con il concorso? Chi avrà la pazienza di seguirmi lo scoprirà presto...